Si può tradurre un testo che contrasta con i propri valori?

Il traduttore professionista è un lavoratore autonomo che talvolta può misurarsi con testi dal contenuto scomodo.
Quando si traduce, occorre mettere da parte la propria personalità per essere al servizio del testo e usare il tono di voce, la terminologia e lo stile richiesti dalla committenza.

Però a volte si può lavorare a un progetto che contrasta con i propri valori.

Ad esempio, qualche mese fa ho tradotto un breve saggio di un artista che compie atti estremi e che divide l’opinione pubblica con la sua arte che sconfina con la politica. Spesso ricorre all’autolesionismo rivendicando il diritto alla libertà di espressione e denunciando gli abusi politici.

Prima di essere una traduttrice, sono una persona, quindi non nascondo che quel progetto di traduzione mi ha scosso. Posso non condividere le modalità, gli strumenti e le scelte dell’artista, però ne comprendo la visione, in particolare il suo rifiuto del conformismo e dell’ipocrisia di massa.
Ed è questo che mi ha convinto ad accettare il progetto e a tradurre il suo saggio in italiano.

Però in quell’occasione ho riflettuto sul limite che c’è tra il proprio lavoro e i propri valori. Talvolta questi ultimi sono l’esatto opposto del contenuto di un progetto di lavoro. In questi casi il rifiuto di un incarico è inevitabile.

Ad esempio, un traduttore vegetariano o vegano non accetterà di tradurre un disciplinare sul processo produttivo della carne bovina.

Come libera professionista, sono libera di accettare o rifiutare progetti di traduzione per vari motivi, i più comuni dei quali sono i seguenti. In genere rifiuto un incarico di traduzione se:

  • il settore non è di mia competenza
  • le lingue di lavoro sono diverse dalle mie combinazioni linguistiche
  • le tariffe o il budget del cliente sono al di sotto dei miei standard
  • la mia agenda è già piena di altri progetti e non sono disponibile
  • nutro diffidenza nei confronti di un potenziale cliente

Mi piace sottolineare che la parola lavori è l’anagramma della parola valori, quindi c’è una sorta di commistione tra le due cose, che a mio parere dovrebbero convivere il più possibile.

So che non accetterò mai di tradurre contenuti che promuovono la misoginia, il razzismo, la pornografia, il gioco d’azzardo, non solo perché tutto ciò contrasta con il mio sistema di valori, ma anche perché tradurre significa trascorrere delle ore su un testo che diventa parte del proprio bagaglio personale e per un altro motivo essenziale: la traduzione contribuisce alla diffusione di un messaggio, di valori e culture.

Tu lavoreresti a un progetto che contrasta con i tuoi valori?

Una traduttrice introversa

Sai che il 2 gennaio è la Giornata Mondiale degli Introversi?

Come traduttrice professionista e persona introversa, ho sempre ritenuto che la mia natura introspettiva fosse un aspetto rilevante della mia predilezione per la traduzione.

Sono portata per la riflessione, quindi soppeso con cura le parole quando traduco, mentre un interprete deve avere la prontezza di trovare la soluzione migliore in una manciata di secondi. La cura è un requisito imprescindibile sia per il traduttore che per l’interprete, però il primo ha il privilegio del tempo maggiore a sua disposizione.

Non è detto che il binomio traduttore introverso sia una regola, però nel mio caso è la realtà.

Preferisco stare dietro le quinte con il mio lavoro di traduttrice, a differenza dell’interprete che è sotto i riflettori.
Prediligo la mia scrivania a un lavoro d’ufficio circondata da altre persone, chiacchiericci, interruzioni e telefoni che squillano.

Le interruzioni non mancano anche quando si lavora da casa – così come gli imprevisti – però con la libera professione e la vita da freelance sono io al comando, sono io a dovermi motivare e agire sempre con autodisciplina.

Mi piace lavorare da sola e in autonomia, in un ambiente tranquillo. Macino parole al computer, interagisco con i clienti per lo più tramite email, talvolta al telefono o in videoriunione.

Naturalmente apprezzo il contatto umano perché, come diceva Aristotele, l’uomo è un animale sociale. E, quando ne ho la possibilità, vado a trovare i miei clienti.

Del resto, non disdegno situazioni aggreganti né la socialità, però ammetto di essere molto selettiva. Invece di circondarmi di persone con cui parlare del nulla, preferisco la compagnia di persone con cui avere conversazioni profonde. Mi piace la leggerezza, non la superficialità. La qualità, non la quantità.

Mi sento una persona più ricca dopo un’esperienza o una conversazione piacevole che mi lascia qualcosa.

Ammetto che alcuni aspetti della mia riservatezza si presentano come limiti sul piano personale e professionale, come parlare in pubblico e uscire dalla zona di comfort.

So bene che queste parole non corrispondono necessariamente al tuo modo di fare e di essere o possono persino suscitare la tua avversione. Ma è proprio questo il bello. La nostra diversità.

Queste mie preferenze rispecchiano la mia natura introversa. Bisogna però evitare di cadere nella trappola comune che consiste nel confondere introversione e timidezza.

In effetti, non sono timida. Se non avessi lo spirito d’iniziativa, non avrei mai scelto di lavorare in proprio come traduttrice freelance. Perché occorre rimboccarsi le maniche, ricercare, contattare, proporre e negoziare in questa professione, e non lasciare che le cose accadano crogiolandosi nell’attesa. Si tratta di agire, non di subire.

La perseveranza è per me imprescindibile, mentre non so cosa sia la procrastinazione.
L’intraprendenza può andare di pari passo con l’introversione. Come traduttrice introversa, non sono espansiva, però sono intraprendente.

Tu sei una persona introversa o estroversa? Senti di poter esprimere questo aspetto nel tuo lavoro?

Alcune parole scompariranno con la crisi climatica

Un effetto inatteso della crisi climatica riguarda i cambiamenti linguistici. Sembrano due aspetti distanti, invece sono decisamente correlati.

Partiamo dal presupposto che il riscaldamento globale provoca lo scioglimento dei ghiacciai, un’evidenza sotto gli occhi di tutti (tranne dei negazionisti, ovvio).

Di fronte ai mutamenti climatici in atto sul pianeta, come si adattano le persone? Come si adatta la lingua?

Consideriamo una frase che probabilmente hai già sentito o letto: gli eschimesi usano 50 parole diverse per riferirsi alla neve. Ma è vero?
No, è un’affermazione falsa.

In realtà, nell’Ottocento l’antropologo Franz Boas osservò che gli Inuit, la popolazione indigena che vive nella regione artica, usano varie parole per descrivere la neve, come aput (neve sul terreno), qana (neve che cade), piqsirpoq (bufera di neve) e qimuqsug (cumulo di neve).

Il groenlandese o kalaallisut è una lingua polisintetica: la struttura delle parole è molto complessa, perché alla radice della parola vengono aggiunti vari prefissi e suffissi per trasmettere un’informazione dettagliata.
Quindi una parola è sufficiente per descrivere in modo minuzioso qualcosa per cui utilizzeremmo decine di parole diverse.

La lingua locale cambia con il clima e con i suoi effetti sulla natura

È tutto collegato.

La lingua descrive la realtà. La realtà cambia, la natura intorno a noi è devastata dalla crisi climatica.

Il ghiaccio marino non è più quello di pochi decenni fa, così in futuro non ci sarà più alcun motivo per utilizzare parole per descrivere il ghiaccio marino molto spesso che non esisterà più.

Il ghiaccio marino è sempre più sottile e inizia a scomparire. Questo mette a rischio anche la fauna e minaccia alcune specie.
Infatti, gli orsi polari prediligono il ghiaccio marino per la caccia: le foche riemergono in superficie e loro possono nutrirsi. Ma il ghiaccio marino si scioglie sempre più in fretta e molti orsi polari iniziano a morire di fame.

Per non parlare dell’innalzamento del livello del mare e degli eventi climatici devastanti correlati.

L’altra faccia della medaglia è il boom del turismo in Groenlandia, dove migliaia di visitatori da tutto il mondo si affrettano a osservare i ghiacciai prima che sia troppo tardi.

Come si chiede la giornalista Lisa Abend, in futuro ci saranno meno parole per descrivere la neve e il ghiaccio e più parole per descrivere la pioggia, le inondazioni e il caldo?

Non basta la riflessione. Occorre agire di conseguenza. Prima di lasciarci, una persona molto saggia ci ha invitato a fare la nostra parte.

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein

Perché non dico chi sono i miei clienti

La riservatezza è un requisito imprescindibile del traduttore professionista.
Veniamo a conoscenza di dati sensibili, anteprime, segreti industriali, pratiche commerciali e informazioni confidenziali da trasferire in un’altra lingua e in un’altra cultura.

Spesso ciò implica la firma di veri e propri accordi di riservatezza e non divulgazione.
Ma anche in assenza di tali accordi, non è ammissibile sbandierare ai quattro venti i nomi dei propri clienti come principio generale, e a maggior ragione quando il lavoro che facciamo richiede un certo riserbo secondo la deontologia del settore.

Un’eccezione che fa rima con pubblicazione

Il caso dei traduttori letterari è diverso. Il loro nome viene pubblicato all’interno del libro, spesso anche in copertina. In tal caso, i riflettori sono puntati anche sul traduttore, il cui nome è di dominio pubblico. Quindi il committente della traduzione è palese e non resta un mistero.

Per chi traduce in ambito tecnico, scientifico o creativo, quindi in qualsiasi altro ambito che non sia quello editoriale, il discorso è diverso. Ed è il punto che mi preme sottolineare con questo post.

Per chi traduco?

Nella home del mio sito c’è la sezione “Dicono di me”, dove ho pubblicato i pareri di alcuni miei clienti sulla nostra collaborazione, ovviamente con il loro consenso.

Mi piacerebbe aggiungerne altri, però mi sento sempre un tantino in soggezione, come se la richiesta di un feedback da pubblicare recasse un disturbo ai miei clienti.
Sicuramente è un mio limite, ne prendo atto, e devo lavorarci su.

Però talvolta riscontro un atteggiamento opposto da parte di altri traduttori.
Sui siti web di molti traduttori è possibile trovare una sfilza di loghi alla voce “I miei clienti”. Mi auguro che i traduttori in questione abbiano il permesso di ciascun cliente per fare ciò.

Lungi da me pensare male, però stento a credere che un traduttore abbia ottenuto il consenso esplicito di un grande e famoso brand internazionale per la pubblicazione del logo sul suo sito.
Magari è così, tanto meglio! 🙂
Tuttavia, rimango un po’ scettica.

Del resto, un odontoiatra che cura pazienti di fascia alta direbbe a chicchessia i nomi dei suoi pazienti vip?

Per i nostri clienti, noi professionisti della lingua siamo fornitori come tutti gli altri.

Una panoramica dei miei clienti

Le agenzie di traduzione sono clienti molto importanti per me. Collaboro principalmente con agenzie francesi e inglesi, e mi trovo molto bene.

Tramite oppure oltre alle agenzie di traduzione, traduco per produttori di cosmetici, case di moda, uffici del turismo, make-up artist, agenzie di marketing, start-up del benessere, maison di orologeria, gruppi di soluzioni abitative, resort, società di sottotitolazione e localizzazione di audiovisivi, catene di campeggi e villaggi turistici, marche di abbigliamento, comprensori sciistici, gruppi del lusso.

Non posso rivelare nomi, cognomi o ragioni sociali, né intendo farlo.
Però ammetto che a volte la tentazione c’è, soprattutto quando mi capita di vedere in televisione lo spot italiano di una campagna pubblicitaria a cui ho lavorato, che presenta un mio cliente o un suo prodotto, e che mi riempie di orgoglio.
Sarebbe bello condividere la gloria con chi mi circonda. Invece mi limito a sorridere fra me e me.

D’altronde, Terenzio giustamente scriveva:

Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

Il paradosso dell’intelligenza culturale

L’intelligenza culturale è la capacità di adattarsi e mostrare flessibilità in contesti caratterizzati da differenze culturali.

Si acquisisce con l’esperienza e la formazione, non è una dote innata. Richiede apertura mentale e consiste nell’uscire dalla propria bolla culturale.

In un periodo storico in cui la prospettiva da cui si guarda il mondo è considerata, ahimè, l’unica valida e giudicante, uno sguardo che contempla tutte le sfumature che ci circondano dimostra maturità.

Ma c’è un paradosso in tutto questo, la cui parola chiave è adattamento.

L’intelligenza culturale presuppone che ci si adegui a un contesto culturale contraddistinto dalla diversità.
In tal modo, non si pregiudica la legittimità dei propri valori, usanze e abitudini culturali? Del resto, la diversità di questo contesto include anche la propria cultura di appartenenza.

Andiamo nel dettaglio per capire meglio questo paradosso.

Se sei una persona che rispetta abbastanza gli orari concordati, perché dovresti essere tu a tollerare i ritardi degli altri? Perché è preferibile la puntualità da parte tua senza darla per scontata nel prossimo?
Se le differenze culturali contemplano l’autenticità dei propri valori e usanze, perché devi essere tu ad adattarti a un determinato contesto?

L’adattamento culturale non compromette l’autenticità?

In questa sfilza di domande, per me l’interrogativo chiave è questo: quanto occorre adattarsi quando si interagisce con altre culture?

Tutto parte dal tuo obiettivo. Il mezzo per raggiungerlo è un cambiamento di prospettiva.
Si tratta di mettere in pratica le competenze necessarie per portare a termine una missione, dal negoziare una proposta fino a ricevere la conferma di un progetto.

Segui la tua bussola interiore

Ti faccio un esempio.

Amo la puntualità, rispetto sempre l’orario stabilito e, anzi, gioco d’anticipo, non solo per la consegna di un progetto di lavoro ma anche nella vita personale.

Se devo interagire con persone che non rispettano la puntualità, come le culture latinoamericane, dovrei adattarmi al loro modo di fare e non sentirmi frustrata dal ritardo [per approfondire, iscrivendoti alla mia newsletter riceverai il file scaricabile 5 consigli per una riunione con un cliente straniero che tratta anche questo aspetto].

Abbiamo fissato una videoconferenza alle 16:00? In questo caso, so che il mio interlocutore non sarà puntuale e che dovrò aspettare una mezz’oretta.

Allora mi adatto. Magari non sarò già pronta a iniziare la videoconferenza alle 15:50, come farei di norma, e spaccherò il minuto dell’orario stabilito per ridurre il tempo in cui dovrò attendere il mio interlocutore.

Il motivo?
Perché presentarmi in ritardo, anche se so che l’altro non sarà puntuale, contraddice il valore che io do al tempo.
Quindi mi adatto al contesto specifico senza compromettere la mia autenticità.

Viviamo un mondo di complessità in cui non è tutto bianco o nero, bensì impreziosito da sfumature, tutte valide, tutte importanti. 🙂

Uniti nella traduzione

Il tema della Giornata Mondiale della Traduzione 2021 è Uniti nella traduzione.

Dopo un anno e mezzo di pandemia, chiusure e distanziamento, parlare di unione e comunità diventa antidoto alla condizione di solitudine che ha riguardato tutti, chi più chi meno.

Oltre agli effetti fisici, non dobbiamo dimenticare che questi mesi difficili hanno ripercussioni anche sulla salute mentale.

Se lo stress e l’ansia sono incrementati a causa del carico di tensione e preoccupazione costante, il sovraccarico cognitivo ed emotivo ha comportato anche l’aumento dell’agitazione e dei disturbi del sonno negli adulti e nei bambini.

Ma cosa c’entra tutto questo con la traduzione e la sua giornata mondiale?

C’entra eccome. Grazie a un progetto a cui ho lavorato tra la fine della primavera e la prima parte dell’estate 2021.

Un progetto per ritrovare la calma

Questo progetto mi è stato proposto dall’International Business Manager di una startup francese che sta per lanciare i suoi prodotti sul mercato italiano.

Non posso entrare nel dettaglio per via della riservatezza che è parte della deontologia del mio lavoro di traduttrice.

Però mi piacerebbe trasmetterti il senso di unità e condivisione di questo progetto di gruppo: un team di quattro traduttori (una in particolare è stata una collaboratrice davvero preziosa), tecnici del suono in grado di fare magie e una voice actress che stimo da tempo, oltre allo staff della startup direttamente coinvolto in questo progetto.

Il prodotto in questione aiuta l’ascoltare a ritrovare la calma attraverso viaggi meditativi: non è un podcast né ASMR né un dispositivo connesso, dato che le onde elettromagnetiche e la luce blu sono il principale nemico del sonno e della tranquillità.

Tra le altre cose, mi sono occupata della traduzione degli script e dell’ascolto degli audio per verificare che tutto fosse coerente con i parametri stabiliti in partenza.

Tra email, telefonate e aggiornamenti dei file su Google Drive, per velocizzare il confronto e i feedback abbiamo creato un gruppo WhatsApp, il che ha rappresentato un’eccezione al mio modo di lavorare.

Infatti, preferisco non spostare le conversazioni di lavoro su questa applicazione, fuorché in casi eccezionali dove diventa oggettivamente necessario per ottenere riscontri immediati.

Non sono mancati imprevisti, tra cui le vacanze già programmate di alcuni membri del team da conciliare con i tempi stretti di consegna del lavoro. 🙂

Ecco un esempio di traduzione collaborativa, di progetto di cui condivido la visione, di prodotto che nel suo piccolo può migliorare la vita di qualcuno.

Del resto non salvo vite umane con il mio lavoro di traduttrice, ma cerco di lasciare un piccolo segno dietro le quinte per abbattere distanze linguistiche e culturali. Uniti nella traduzione.

Esiste il razzismo linguistico?

Le differenze linguistiche possono provocare pregiudizi e atteggiamenti discriminanti.

Una persona che parla una lingua straniera con accento marcato potrebbe essere considerata meno intelligente o meno competente semplicemente perché è una persona che parla una lingua straniera con accento marcato.

In tal caso, le competenze del soggetto vengono misurate soltanto dall’espressione linguistica, ignorando le sue reali abilità.

Purtroppo questa percezione è reale, come dimostrano gli studi.
Questi ultimi riguardano soprattutto la lingua inglese, in particolare il confronto tra i madrelingua e chi parla inglese come lingua straniera.

In genere, l’inglese parlato con accento italiano, francese e tedesco è apprezzato dai madrelingua inglesi: viene considerato sofisticato o persino sexy.

Ma le cose cambiano se a parlare inglese è un asiatico, un africano o una persona del Medio Oriente. In tali casi, l’accento è meno apprezzato o considerato sgradevole.

Questo fenomeno, che non è sempre intenzionale, non riguarda soltanto l’inglese.

Consideriamo la nostra lingua.

In genere, se una persona italiana sta per interagire in italiano con un asiatico, le aspettative sono queste: l’interlocutore parlerà con marcato accento straniero, avrà esitazioni, commetterà errori o sarà difficile da capire.
Invece potrebbe trattarsi ad esempio di un giapponese di seconda generazione, nato a Milano da genitori giapponesi, che ha sempre parlato italiano con naturalezza, scioltezza e accento milanese.

Questo pregiudizio più o meno inconsapevole potrebbe essere una forma di razzismo linguistico.

La psicologia dietro il razzismo linguistico

Qual è il motivo alla base di tutto questo?
Entrano in gioco meccanismi psicologici.

Il cervello fa più fatica a capire un accento meno familiare. Lo sforzo in più nell’atto della comprensione e l’innata predisposizione favorevole verso le persone simili e non nei confronti del diverso possono suscitare sentimenti negativi verso chi ha origini straniere e parla una lingua straniera con accento marcato.

Ciò potrebbe indurre alcuni ad assumere atteggiamenti discriminanti, come escludere o ridicolizzare questi soggetti che sviluppano un complesso di inferiorità, dando vita al vero e proprio razzismo linguistico.

Come affrontare il razzismo linguistico

La base di tutto è la consapevolezza. Ecco cosa fare per evitare forme di razzismo linguistico:

  • Migliorare le proprie capacità di ascolto, prestando più attenzione a quello che dice l’altro e non a quello che ci si aspetta di sentire
  • Parlare più lentamente e utilizzare meno espressioni idiomatiche in presenza di interlocutori non madrelingua
  • Ascoltare una pluralità di accenti diversi per abituare l’orecchio e il cervello a suoni meno familiari

Conoscevi già questo fenomeno o hai vissuto qualcosa di simile quando parli una lingua straniera?

Come richiedere una traduzione

Ognuno ha i suoi contatti di lavoro privilegiati, dal telefono all’email.
Ecco quali sono i miei e perché, così evitiamo perdite di tempo da entrambe le parti. 🙂

Un’informazione da mettere in chiaro come premessa importante: non fornisco il mio numero di cellulare a chiunque, infatti non lo trovi neppure sul mio sito web, perché per il mio lavoro i contatti privilegiati sono per iscritto.

Del resto si tratta di traduzione, quindi ho bisogno di prendere visione del testo da tradurre.

Certo, poi possiamo sentirci anche telefonicamente per confrontarci su aspetti specifici del progetto, oppure consultarci via skype, ma concordando sempre e comunque il giorno e l’ora della chiamata.

Per questo i clienti esistenti hanno il mio numero di telefono, mentre preferisco non comunicarlo a chiunque in modo indifferenziato.

Il lavoro di traduttrice richiede concentrazione. Se sto traducendo o revisionando un testo, non posso essere interrotta per rispondere continuamente al telefono o controllare le notifiche. Lo faccio quando lo decido io, cioè quando posso.

Le richieste da non fare

Mi è capitato di ricevere richieste sulla Pagina Facebook o su LinkedIn, talvolta anche via WhatsApp.
In tal caso sposto la conversazione sulle email, perché è questo il canale che prediligo nel mio lavoro di traduttrice freelance.

Se mi contatti per un progetto di traduzione, non puoi aspettarti un preventivo scrivendo due righe via social come “Mi serve una traduzione, potresti aiutarmi?”.

Mancano dettagli essenziali: quali sono le lingue coinvolte? Per quando ti serve la traduzione? A chi è destinata? E soprattutto… dov’è il testo?

Se non leggo il testo di partenza, non posso preventivare proprio niente. La lunghezza e il formato del file, il settore e le lingue di lavoro sono informazioni fondamentali per poter elaborare un preventivo.

Le richieste da fare

Se hai bisogno della traduzione in italiano di un testo inglese o francese che rientra nei miei settori di specializzazione, puoi contattarmi dalla sezione Contatti del mio sito web o all’indirizzo email info@raffaellalippolis.com.

Ti chiedo due cose molto semplici:
– Specifica i dettagli del progetto, come la combinazione linguistica, ed eventuali tempistiche di consegna
– Allega il testo da tradurre

In questo modo potrò elaborare un preventivo personalizzato.

Non c’è nulla di troppo complicato.

Si tratta semplicemente di fare richieste mirate per evitare di perdere tempo in prima persona e di farmi perdere tempo.

Tutto questo è un ottimo punto di partenza per avviare una collaborazione. 😉

Localizzazione di qualità per lo streaming

Le piattaforme di streaming come Netflix, Amazon Prime e Disney+ hanno beneficiato delle restrizioni dovute alla pandemia e della chiusura globale dei cinema, dato che sono gli unici canali che trasmettono contenuti audiovisivi originali oltre alla tv tradizionale.

Eppure, anche prodotti di qualità risentono delle tempistiche ridotte del settore audiovisivo: sottotitoli e doppiaggio realizzati in fretta e furia, spesso da neofiti, refusi o errori peggiori nei sottotitoli tradotti, ecc.

Così il mondo del doppiaggio spesso lamenta il calo di qualità che riguarda tutta la filiera per abbreviare i tempi di lavoro, perché manca l’importante supervisione finale.

Infatti, molti studios si rivolgono a società a basso costo che affidano i lavori di traduzione, voice-over e adattamento a operatori esterni poco qualificati e sottopagati, riducendo i tempi (e la qualità).

Forse le cose iniziano a cambiare.

Finalmente la localizzazione di un prodotto audiovisivo viene considerata un passaggio cruciale, che non deve essere sacrificato sull’altare del risparmio. Si tratta di un processo che richiede cura, attenzione e professionalità quanto la produzione stessa.

Investire in produzioni locali

I prodotti audiovisivi disponibili sulle piattaforme di streaming sono soprattutto in inglese. Dalla lingua originale vengono doppiati o sottotitolati in decine di altre lingue per essere fruibili in tutto il mondo.

Ma la crescita esponenziale dello streaming induce il settore audiovisivo a investire in produzioni locali, realizzando film, documentari e serie tv in lingue diverse (come il francese Lupin), da doppiare e sottotitolare in altre lingue, tra cui l’inglese.

Insomma, il processo si inverte.

Così è possibile attirare un maggior numero di iscritti.

Ad esempio, una produzione coreana lanciata su Netflix indurrà migliaia di coreani a iscriversi a Netflix, per poi acquisire popolarità anche in altri Paesi grazie ai sottotitoli tradotti o al doppiaggio.

Tutto questo richiede un grande lavoro di adattamento attraverso il confronto continuo tra script, audio e video. Il copione da tradurre non basta: occorre adattare il testo in base a ciò che accade sullo schermo, alle inquadrature, agli effetti sonori e al linguaggio del corpo.

Il controllo qualità

La crescita internazionale rende ancora più cruciale il controllo qualità.
Se una serie tv italiana disponibile in streaming viene sottotitolata in inglese, occorre un revisore (sempre e comunque) che verifichi la conformità della traduzione dall’italiano all’inglese e poi un madrelingua inglese che si metta nei panni dello spettatore del prodotto finale sottotitolato per controllare che il contenuto sia perfettamente fruibile nella sua lingua.

Tempus fugit, la domanda è alta… però è sempre meglio curare il prodotto nel minimo dettaglio, così quegli screenshot che denunciano gli errori grossolani nei sottotitoli saranno un lontano ricordo.

Il lavoro da remoto non è lavoro di serie B

Da quando il lavoro da remoto (il cosiddetto smart working) si è diffuso in tempi di pandemia, esistono due nuove categorie di lavoratori oltre a chi lavorava già secondo queste modalità:

  1. Quelli che “Ma io non ce la faccio, non fa per me”
  2. Quelli che “Preferisco continuare così invece di tornare in ufficio”.

Non intendo i lavoratori autonomi e i freelance che lavoravano da casa anche prima della pandemia, bensì i dipendenti che hanno scoperto il lavoro da remoto.

Per quanto il lavoro da remoto abbia sia benefici sia limiti, alcuni dipendenti oggi preferiscono questa modalità e non desiderano tornare fisicamente in azienda.

La motivazione principale alla base di questa scelta riguarda il risparmio di tempo e di costi:

  • Niente tragitto casa-lavoro in auto o sui mezzi pubblici, risparmiando ore all’andata e al ritorno
  • Niente pausa pranzo al bar o al ristorante
  • Nessun trasferimento nella città dove ha sede l’azienda, dove magari l’affitto e il costo della vita sono più alti rispetto alla propria città di origine o in cui ci si è stabiliti.

In effetti, bisogna tenere conto dell’indotto che beneficia di quest’ultimo punto: agenzie immobiliari, ristorazione e trasporti fanno grandi profitti grazie ai dipendenti che riempiono gli uffici cittadini.

Però bisogna fare i conti con il proprio datore di lavoro, secondo cui il lavoro da remoto è lavoro di serie B.

In molti casi, il titolare di un’azienda richiama subito i dipendenti in sede appena possibile. Alla base di questa esigenza possono esserci una mania di controllo o una scarsa fiducia nell’autodisciplina degli impiegati, che vengono costretti a tornare in ufficio anche se potrebbero continuare a lavorare da remoto perché il loro tipo di lavoro lo permette.

Così alcuni giungono a una scelta drastica.

Come conferma Bloomberg, molti dipendenti stanno rinunciando al posto di lavoro quando vengono costretti dal capo a tornare in ufficio.

Questo fenomeno riguarda soprattutto le generazioni più giovani, già abituate alla flessibilità sul lavoro e che non hanno mai conosciuto un mondo del lavoro senza precarietà in cui domina il posto fisso, come accadeva pochi decenni fa.

I datori di lavoro ritengono che la presenza dei dipendenti in azienda sia fondamentale per preservare la cultura aziendale, tanto che un sondaggio rivela che debbano lavorare in presenza almeno tre giorni alla settimana.

Forse sarebbe meglio interrogarsi su questo: in cosa consiste la cultura aziendale?

La cultura aziendale comprende la visione e gli obiettivi dell’azienda, ma anche i comportamenti e i valori che accomunano tutti i dipendenti.

La soddisfazione e la produttività di un lavoratore non si misurano soltanto nello spazio fisico in cui lavora. Se l’organizzazione stessa è traballante, se il dipendente parla male dell’azienda per cui lavora, vuol dire che c’è qualcosa di fondo che non va.

Secondo te, il coinvolgimento e la motivazione di un dipendente sono possibili soltanto se lavora in presenza?